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Trust: ancora una volta la Cassazione sconfessa l’Agenzia delle Entrate

Se è pur vero che l’essere umano è capace di adattarsi a tutto (e la riprova ne è la continuazione della specie, almeno fino ad ora), l’homo juridicus, sottospecie homo fiscalis, sembra spesso tentare di dimostrare il contrario.

In Italia si utilizza il trust come uno strumento del diritto, pur importato da sistemi giuridici diversi, ormai da qualche decennio. La sua versatilità è tale da essere utile per il passaggio generazionale di patrimoni, per gestire liquidazioni di società, per costituire garanzie, per destinare somme alla realizzazione di opere di pubblico interesse (ospedali, assistenza a famiglie, ponti…), per assistenza a persone fragili…

Anche il legislatore del 2016, scrivendo la disciplina del “dopo di noi” (legge 112/2016), senza doversi preoccupare di cosa sia e come funzioni questo strumento, ha detto che il trust è una delle vie da seguire per destinare un patrimonio a realizzare gli interessi di una determinata persona dichiarata disabile grave.

Notai, commercialisti e avvocati, preparati sulla materia, offrono ai propri clienti l’utilizzo del trust per realizzare i propri interessi.

Nonostante questo, sin dal suo “ufficiale” ingresso nel nostro Paese nel 1992, l’Ufficio del Registro prima e la totalizzante Agenzia delle Entrate poi, hanno cercato tutti i modi possibili per “colpire” gli atti di destinazione dei beni al fondo in trust.

Per intenderci meglio: con l’atto istitutivo del trust, un soggetto, il disponente, detta le regole che devono essere seguite per amministrare un fondo, costituito di beni di qualsiasi tipo (denaro, immobili, quote sociali, crediti…), affidato ad un soggetto di fiducia (il trustee), per perseguire un determinato scopo a beneficio di determinati soggetti.

Non è l’atto istitutivo ad aver mai attratto la cupidigia dell’erario, quanto invece l’atto di dotazione dei beni al fondo in trust, cioè l’atto con il quale il disponente trasferisce al trustee i beni necessari a costituire il fondo.

L’Agenzia delle Entrate, in particolare dal 2007 e subito dopo nel 2008, nel tentativo di porre una pietra miliare sulla via della evoluzione in Italia dell’uso del trust (quasi più una pietra tombale), produsse due prime circolari (la 47E/2007 e la 3E/2008), con le quali interpretò la reintrodotta imposta di successione e donazione, nella parte in cui il legislatore scrive dell’applicazione applicazione dell’imposta anche ai vincoli di destinazione (art. 2, comma 40, D.Lgs. 262/2006), come applicabile anche agli atti di dotazione al fondo in trust.

Ora, la dotazione di beni e diritti al fondo in trust non comporta alcuna manifestazione di capacità contributiva: non arricchisce il trustee, che riceve i beni per gestirli in funzione dei beneficiari del trust. Non arricchisce nemmeno i beneficiari stessi, che sono sì destinatari delle utilità del fondo in trust, ma solo al verificarsi di particolari circostanze, condizioni, bisogni, fatti o atti, come espressamente indicati nell’atto istitutivo.

La dotazione al fondo in Trust deve comportare il solo pagamento delle imposte fisse (200,00 euro per imposta).

Sarà poi il trasferimento finale ai beneficiari, quando questo avverrà secondo le regole del trust, ad essere assoggettato ad imposte proporzionali.

Da allora e fino a quasi tutto il 2019, anche la giurisprudenza tributaria aveva seguito tale via applicativa; poi, finalmente, la svolta. Verrebbe da dire che si trovò il famoso giudice a Berlino che, nel nostro caso, non fu altri che la Corte di Cassazione.

Quasi un centinaio di pronunce del Supremo Collegio tutte nella stessa direzione. Così tante pronunce per altrettanti accertamenti fatti dall’Agenzia delle Entrate verso atti di dotazione. Ultima di questa serie è la 8719/2021 del 30 marzo.

Sarà il punto fermo di questa fase dell’evoluzione?