In un altro articolo (qui) si è
avuto modo di ricordare quale importanza ha la tranquillità di vendere un
fabbricato con la certezza del suo “stato di salute” in materia
edilizia.
Le norme che disciplinano
l’attività edilizia sono nazionali e regionali e a queste si aggiungono norme
comunali.
Diversi livelli di produzione
normativa creano un sistema complesso da comprendere e, spesso, diventa ugualmente
complessa la verifica dello “stato legittimo” di un fabbricato.
Quando si parla di “stato
legittimo“, come anche recentissimamente scritto dal legislatore con
l’art. 1 bis dell’art. 9 bis inserito nel DPR 380/2001 dal D.L. “Semplificazioni”
(D.L. 76/2020, convertito nella L. 120/2020), si fa riferimento “a
quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che
ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento
edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati
con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.
Per i fabbricati realizzati in
un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo
edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali
di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese
fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto,
pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo
abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato
l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli
successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al
secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di
prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia.”.
Tuttavia, non tutti gli abusi
edilizi sono tali da impedire che il fabbricato possa essere venduto in modo valido
ed efficace e, quindi, non possa essere oggetto di commercializzazione.
E’ dal 1985, anno in cui è entrata
in vigore la legge n. 47, che i Notai, con i loro clienti, affiancati dai tecnici,
si preoccupano di avere i dati dei titoli abilitativi della costruzione, e delle
sue modificazioni successive, da indicare negli atti di compravendita.
Infatti l’assenza della
dichiarazione del venditore con i riferimenti agli estremi del permesso di
costruire (o concessione ad edificare) o al permesso in sanatoria (o alla
concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell’art. 13 della L. 47/85),
oppure la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che il fabbricato è
stato costruito in data anteriore al 1.9.1967, comporta espressamente la
nullità dell’atto.
Un atto, quando è nullo, non
serve a niente: la proprietà non è passata dal venditore all’acquirente e,
quindi, quest’ultimo non ha alcun titolo per possedere quel fabbricato che deve
tornare al venditore. E il venditore deve conseguentemente restituire il prezzo
incassato, perchè non sono soldi da questo legittimamente detenuti.
Immaginabili i problemi pratici
che possono derivare da una nullità di una compravendita: restituzione del
fabbricato dopo aver effettuato un trasloco, restituzione del prezzo dopo averne
già speso la somma per un nuovo acquisto, estinzione di un mutuo contratto per
finanziare l’acquisto …
Anche l’interpretazione della
norma che sanziona di nullità la compravendita nel caso in questione è stata
oggetto di un percorso che (per ora) si è sviluppato dal 1985 al 2019, quando
le Sezioni Unite della corte di Cassazione hanno pronunciato una sentenza (la
n. 8230 del 22 marzo 2019) con lo scopo di dirimere il contrasto di
giurisprudenza della Seconda Sezione della Corte stessa.
Nell’argomentare la propria
decisione, la Suprema Corte ha ripercorso in sintesi l’evoluzione
dell’interpretazione delle norme, ricordando le tesi delle cosiddette “nullità
formale” e “nullità sostanziale” e concludere componendo
il contrasto con l’individuazione della corretta interpretazione delle norme quali
sanzionanti l’atto con la “nullità testuale“.
La Corte ha quindi stabilito:
– “In presenza nell’atto
della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale
e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo
della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo
menzionato.”;
– “in ipotesi di
difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e
costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità, con
conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di provvedere al
recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere
alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle
prescrizioni della disciplina urbanistica.”.
Per approfondire.
Di seguito, per i più
intraprendenti, si riporta la sintesi dei passaggi argomentativi della sentenza
richiamata, utili a comprenderne le definizioni date.
Cosiddetta “nullità
formale”
Per tale teoria, espressa con la
sentenza n. 8685 del 1999, poi con la 8147 del 2000, l’atto è nullo esclusivamente
quando manchi la dichiarazione del venditore, indipendentemente dalla
regolarità edilizia del fabbricato venduto.
In altre parole, anche qualora il
fabbricato venduto non abbia abusi edilizi e sia regolare, ma manchi in atto la
dichiarazione del venditore avente ad oggetto gli estremi dei titoli
abilitativi alla costruzione, allora l’atto concluso sarebbe comunque affetto
dalla massima sanzione della nullità.
Tale teoria, a supporto della
propria conclusione, prende in considerazione anche la norma che disciplina la
convalida dell’atto nullo, realizzabile quando il fabbricato venduto senza la
prescritta dichiarazione, sia comunque regolare.
Si legge: “ove il
legislatore avesse voluto attribuire diretta rilevanza alla non conformità dei
beni alla normativa urbanistica, con o senza il “filtro” della
prescrizione di forma, si dovrebbe finire per considerare valido, al di là
delle indicazioni, l’atto che riguardi beni comunque in regola con le norme
urbanistiche”, evidenziando che, in tal modo, si sarebbe svuotata la
portata precettiva della previsione della conferma degli atti e così vanificato
l’apprezzabile tentativo operato dal legislatore di trovare una soluzione che
non solo costituisca uno strumento di lotta contro l’abusivismo, ma che
soddisfi anche l’interesse dell’acquirente alla (esatta) conoscenza delle
condizioni del bene oggetto del contratto.”.
Tale teoria, in particolare,
esclude la fondatezza della tesi, secondo cui accanto a tale nullità avrebbe
dovuto ravvisarsi una nullità sostanziale (per la difformità della costruzione
rispetto al titolo abilitativo).
Da ultimo la Cass, con la
sentenza n. 14804 del 2017, ha ribadito l’applicabilità del principio della
nullità formale.
Cosiddetta “nullità
sostanziale”
Il primo segnale del diverso
orientamento si individua nella sentenza n. 20258 del 2009, che, pur
richiamando il precedente consolidato indirizzo, non ha mancato di precisare
che la strumentazione prevista dalla L. n. 47 del 1985, ha lo scopo di
garantire che il “bene nasca e si trasmetta nella contrattazione
soltanto se privo di determinati caratteri di abusivismo“, aggiungendo
che il prescritto obbligo di dichiarazione in seno all’atto degli estremi della
licenza o della concessione edilizia (ovvero della concessione in sanatoria)
presuppone che detta documentazione vi sia effettivamente e riguardi la
costruzione in concreto realizzata.
Il diverso indirizzo si è, però,
concretizzato con la sentenza n. 23591 del 2013. Con tale decisione, si è,
appunto, affermato che il contratto avente ad oggetto un bene irregolare dal
punto di vista edilizio è affetto da nullità sostanziale.
Ciò è stato ritenuto, anzitutto,
sulla base dello scopo perseguito dalla norma, che è stato individuato in
quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di
vista urbanistico; inoltre, è stata posta in evidenza l’incongruità di
un sistema che sanzioni con la nullità per motivi meramente formali atti di
trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico, o in corso
di regolarizzazione, e consenta, invece, il valido trasferimento di
immobili non regolari, lasciando alle parti interessate la possibilità di
assumere l’iniziativa di risolverli sul piano dell’inadempimento contrattuale,
o, addirittura, di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore,
stipulando il contratto ed immediatamente dopo concludendo una transazione con
la quale il compratore rinunziasse al diritto a far valere l’inadempimento
della controparte.
La sentenza in esame ha poi
evidenziato che, nonostante la sua “non perfetta formulazione”, la
lettera della L. n. 47 del 1985, art. 40, consente di desumere
“l’affermazione del principio generale della nullità (di carattere
sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la
normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale)
per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa
urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze
non risultino dagli atti stessi”. Conclusione avvalorata dal comma 3, del
medesimo articolo, che consente la conferma dell’atto, con conseguente salvezza
dalla nullità, solo, nel caso in cui la mancanza delle dichiarazioni o il
deposito dei documenti non siano dipesi dall’insussistenza della licenza o
della concessione o dall’inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al
tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati; conferma che non avrebbe
senso se tali atti fossero ab origine validi, e ferma restando la
responsabilità per inadempimento del venditore.
Gli argomenti a sostegno di
questa interpretazione ora riassunti sono mossi dal chiaro intento di
supportare, anche da un punto di vista schiettamente civilistico, il disvalore
espresso dall’ordinamento rispetto al diffuso fenomeno dell’abusivismo
edilizio.
Tale disvalore, in effetti, si
coglie non solo in riferimento alle sanzioni penali ed amministrative
variamente graduate che reprimono direttamente la commissione di abusi edilizi
(di cui si è già detto e su cui infra), ma, in generale, in relazione alla
percezione negativa di ciò che circonda il bene abusivo.
Tuttavia la Cassazione dice:
“L’esegesi propugnata dalla teoria c.d. sostanziale, pur mossa da un
intento commendevole, non può tuttavia prescindere dagli specifici dati
normativi di riferimento, ed al cui esame non può essere qui avallata.“.
Critica alla teoria della
“nullità sostanziale”.
Il D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 46, dichiara invalidi quegli atti ove da essi non risultino gli
estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ovvero gli
estremi della segnalazione certificata di inizio attività, con la precisazione
che tali elementi devono risultare per dichiarazione dell’alienante.
Nella disposizione di cui
alla L. n. 47 del 1985, art. 17, la dichiarazione deve avere ad
oggetto, coerentemente alla disciplina abilitativa allora vigente, gli estremi
della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria, laddove l’art.
40, della menzionata L. n. 47, consente di stipulare validamente, oltre che con
l’indicazione degli estremi della licenza o della concessione in sanatoria,
anche con l’allegazione della relativa domanda e versamento delle prime rate di
oblazione, o con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante
l’inizio della costruzione in epoca anteriore al 2 settembre 1967.
Nell’ipotesi qui in rilievo di
compravendita di edifici o parte di essi (ed a parte le allegazioni di cui
all’art. 40), le norme pongono, dunque, un medesimo, specifico, precetto: che nell’atto
si dia conto della dichiarazione dell’alienante contenente gli elementi
identificativi dei menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e
l’impossibilità della stipula sono direttamente connesse all’assenza di
siffatta dichiarazione (o allegazione, per le ipotesi di cui all’art. 40).
Null’altro.
Pare, dunque, che il principio
generale di nullità riferita agli immobili non in regola urbanisticamente che
la giurisprudenza c.d. sostanzialista ritiene di poter desumere da tale contesto
normativo, sottolineando l’intenzione del legislatore di renderli tout court
incommerciabili, costituisca un’opzione esegetica che ne trascende il
significato letterale e che non è, dunque, ossequiosa del fondamentale canone
di cui all’art. 12 preleggi, comma 1, che impone all’interprete di
attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la loro connessione. La lettera della norma costituisce,
infatti, un limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento
percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas
legis (cfr. Cass. n. 12144 del 2016).
La tesi della nullità
generalizzata non è neppure in linea col criterio di interpretazione teleologica,
di cui all’ultima parte dell’art. 12, comma 1, citato, che non consente
all’interprete di modificare il significato tecnico giuridico proprio delle
espressioni che la compongono, ove ritenga che l’effetto che ne deriva sia
inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (cfr. Cass.
n. 3495 del 1996; n. 9700 del 2004 e giurisprudenza ivi citata) e ciò in
quanto la finalità di una norma va, proprio al contrario, individuata in esito
all’esegesi del testo oggetto di esame e non già, o al più in via
complementare, in funzione dalle finalità ispiratrici del più ampio complesso
normativo in cui quel testo è inserito (cfr. Cass. n. 24165 del 2018).
Inoltre, come ricordato dal PG
nella sua requisitoria, la lettera della norma costituisce il limite cui
deve arrestarsi, anche, l’interpretazione costituzionalmente orientata
dovendo, infatti, esser sollevato l’incidente di costituzionalità ogni qual
volta l’opzione ermeneutica supposta conforme a costituzione sia incongrua
rispetto al tenore letterale della norma stessa (Corte Cost. sentenze n. 78 del
2012; n. 49 del 2015; n. 36 del 2016 e n. 82 del 2017).
Del resto, lo scarto dialettico
della tesi si coglie, anche, dalla prospettiva delle decisioni che la hanno
sostenuta, laddove hanno ritenuto “imperfetta” la formulazione della
norma.
Da tanto, consegue che la
nullità comminata dalle disposizioni in esame non può esser sussunta
nell’orbita della nullità cd sostanziale o, con altra espressione, “virtuale”
di cui all’art. 1418 c.c., comma 1, che presupporrebbe l’esistenza di una norma
imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto
immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale
divieto, proprio come registra l’ordinanza di rimessione, non trova riscontro
in seno allo jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche ipotesi di
nullità.
La conclusione della Suprema Corte:
la nullità testuale.
Muovendo doverosamente dal dato
normativo, secondo quanto si è sopra esposto, ritiene il Collegio di dover,
anzitutto, affermare al lume delle considerazioni sopra svolte che si è in
presenza di una nullità che va ricondotta nell’ambito dell’art. 1418 c.c.,
comma 3, secondo quanto ritenuto dalla teoria c.d. formale, con la precisazione
essa ne costituisce una specifica declinazione, e va definita “testuale”
(secondo una qualificazione pure datane in qualche decisione), essendo volta a
colpire gli atti in essa menzionati.
Procedendo, poi, all’analisi
congiunta del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, commi 1 e 4, (ma il
discorso vale in riferimento alle analoghe disposizioni della L. n. 47 del
1985, art. 17, commi 1 e 4, nonchè mutatis mutandis della medesima L. n.
47 del 1985, art. 40, commi 2, e 3), emerge che, a fronte del comma 1, che
sanziona con la nullità specifici atti carenti della dovuta dichiarazione, il
comma 4, ne prevede, come si è detto, la possibilità di “conferma”,
id est di convalida, nella sola ipotesi in cui la mancata indicazione dei
prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo.
Il dettato normativo indica,
quindi, che il titolo deve realmente esistere e, quale corollario a valle, che
l’informazione che lo riguarda, oggetto della dichiarazione, deve esser
veritiera: ipotizzare, infatti, la validità del contratto in presenza di
una dichiarazione dell’alienante che fosse mendace, e cioè attestasse la
presenza di un titolo abilitativo invece inesistente, svuoterebbe di
significato i termini in cui è ammessa la previsione di conferma.
Se ciò è vero, ne consegue che la
dichiarazione mendace va assimilata alla mancanza di dichiarazione,
e che l’indicazione degli estremi dei titoli abilitativi in seno agli atti
dispositivi previsti dalla norma non ne costituisce un requisito meramente
formale, secondo quanto ritenuto da parte della giurisprudenza sopra richiamata
che va in parte qua superata (teoria formale); essa rileva piuttosto, come pure
affermato in altre decisioni adesive alla teoria formale e sottolineato da
un’accorta dottrina, quale veicolo per la comunicazione di notizie e per la
conoscenza di documenti, o in altri termini, essa ha valenza essenzialmente
informativa nei confronti della parte acquirente, e, poichè la presenza
o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto,
ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l’immobile contemplato
nell’atto (cfr. Cass. 20258 del 2009 cit.), la dichiarazione oltre che
vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile.
Conclusione
Validità dell’atto
“In presenza nell’atto
della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale
e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo
della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo
menzionato”.
E ciò per la decisiva ragione che
tale profilo esula dal perimetro della nullità, in quanto, come si è esposto,
non è previsto dalle disposizioni che la comminano, e tenuto conto del
condivisibile principio generale, affermato nei richiamati, precedenti, arresti
della Corte, secondo cui le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e
divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti
debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicchè esse non possono essere
applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle
espressamente previste.
Distinzione tra
“variazioni essenziali” e “variazioni non essenziali”
La teoria sostanzialistica si è
poi misurata nell’andare a individuare tra i vari tipi di abusi e difformità
edilizie, quelli maggiori o essenziali da quelli minori o non essenziali,
attribuendo alla presenza dei primi la stessa sanzione della nullità dell’atto
di trasferimento immobiliare.
La distinzione in termini di
variazioni essenziali e non essenziali non è pertanto utile al fine di definire
l’ambito della nullità del contratto, tenuto conto, peraltro, che la
moltiplicazione dei titoli abilitativi, previsti in riferimento all’attività
edilizia da eseguire (minuziosamente indicata), comporterebbe, come
correttamente rilevato dal PG nelle sue conclusioni, un sistema sostanzialmente
indeterminato, affidato a graduazioni di irregolarità urbanistica di concreta
difficile identificazione ed, in definitiva, inammissibilmente affidato
all’arbitrio dell’interprete.
Il che mal si concilia con le
esigenze di salvaguardia della sicurezza e della certezza del traffico
giuridico e spiega la cautela dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte,
da ultimo ricordata da Cass. n. 11659 del 2018, all’uso dello strumento
civilistico della nullità quale indiretta forma di controllo amministrativo
sulla regolarità urbanistica degli immobili.
La tesi qui adottata non è,
peraltro, dissonante rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno
dell’abusivismo edilizio, cui pure tende la disposizione in esame, e che è
meritevole di massima considerazione. Pare infatti che la ricostruzione nei
termini di cui si è detto della nullità concorra a perseguirlo, costituendo uno
dei mezzi predisposti dal legislatore per osteggiare il traffico degli immobili
abusivi: per effetto della prescritta informazione, l’acquirente,
utilizzando la diligenza dovuta in rebus suis, è, infatti, posto in
grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità
urbanistica del bene, e così valutare la convenienza dell’affare, anche, in
riferimento ad eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato.
In tale valutazione, potrà, ben a
ragione, incidere la sanzione della demolizione che il D.P.R. n. 380 del
2001, art. 31, commi 2 e 3, prevede nei confronti sia del costruttore che
del proprietario in caso d’interventi edilizi eseguiti non solo in assenza di
permesso, ma anche in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell’art. 32. Tale sanzione, come chiarito
dalla giurisprudenza amministrativa (Ad Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017),
ha, infatti, carattere reale e non incontra limiti per il decorso del tempo e
ciò in quanto l’abuso costituisce un illecito permanente, e l’eventuale inerzia
dell’Amministrazione non è idonea nè a sanarlo o ad ingenerare aspettative
giuridicamente qualificate, nè a privarla del potere di adottare l’ordine di
demolizione, configurandosi, anzi, la responsabilità (art. 31 cit., comma 4
bis) in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del
ritardo nell’adozione di siffatto atto, che resta, appunto, doveroso,
nonostante il decorso del tempo.
In conclusione, mentre la nullità
del contratto è comminata per il solo caso della mancata inclusione degli
estremi del titolo abilitativo, che abbia le connotazioni di cui si è detto,
l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto di territorio resta
salvaguardato dalle sanzioni nel caso degli abusi più gravi, dal provvedimento
ripristinatorio della demolizione.
Tale approdo ermeneutico, che ha il pregio di
render chiaro il confine normativo dell’area della non negoziabilità degli
immobili, a tutela dell’interesse alla certezza ed alla sicurezza della loro
circolazione, appare, quindi, al Collegio quello che meglio rappresenta la
sintesi tra le esigenze di tutela dell’acquirente e quelle di contrasto
all’abusivismo: in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo
enunciato nell’atto e costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di
nullità, con conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di
provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà
soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso
alle prescrizioni della disciplina urbanistica.